Onecoin: una piattaforma sospesa in Italia dall’antitrust

Che il mondo delle criptovalute sia oggetto di truffe e raggiri è ormai cosa nota, ed è per questo che si consiglia sempre di investire in piattaforme di trading online che siano state soggette al vaglio e all’approvazione della Consob, l’organo italiano che vigila sulle transazioni finanziarie.

E proprio grazie a quest’ultima e all’autorità antitrust è stata resa illegale nel nostro paese Onecoin, una criptovaluta che prometteva enormi guadagni a dispetto di un esiguo investimento iniziale.

Dopo accurate indagini, il Nucleo Antitrust della Guardia di Finanza ha di fatto reso nota una vera e propria truffa ai danni degli investitori che speravano di trarre lauti profitti dall’utilizzo di Onecoin, e nello scorso anno l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana (AGCM) ha i e multato la società per un ammontare di 2,5 milioni di euro.

Ma cerchiamo di capire le ragioni per le quali questa criptovaluta è stata definita un raggio e qual era il suo meccanismo di funzionamento

Uno schema Ponzi in piena regola

Di fatto Onecoin rispondeva a quello che in gergo si definisce uno schema di Ponzi, ossia un meccanismo che promette una ripartizione dei guadagni a patto che l’utente faccia opera di proselitismo.

Tale meccanismo si configura come una piramide, dove la base è sempre più larga e il vertice è rappresentato dagli ideatori del sistema, i quali sono gli unici che guadagnano alle spalle di coloro che sono attirati dalle promesse di facili e futuri profitti.

Tramite eventi e promesse di provvigioni sui nuovi iscritti Onecoin andava quindi a creare un numero sempre maggiore di investitori, i quali venivano illusi di poter avere una percentuale sui guadagni di coloro che facevano entrare nello schema.

Ma ora che il meccanismo è noto cerchiamo però di capire come si configurava Onecoin agli occhi degli investitori.

Come funzionava la piattaforma Onecoin?

Proponendosi come alternativa al Bitcoin, Onecoin era basata sul procedimento di mining, che per qualche tempo ha contraddistinto anche il Bitcoin stesso.

In altre parole grazie al mining la generazione della nuova valuta digitale dipendeva dall’appartenenza degli utenti alla rete di creazione della moneta stessa: infatti questi, prestando il loro PC alla rete, contribuivano alla gestione e alla sicurezza della rete stessa, creando nuove blockchain e ricevendo come ricompensa un pacchetto di criptovaluta.

Ciò che contraddistingueva Onecoin rispetto al Bitcoin era il fatto che per ottenere la possibilità di fare mining bisognava prima acquistare dei token, ossia dei pacchetti di valuta preliminare, dal costo che oscillava da poco più di 100 ad oltre 5000 euro, a seconda della quantità.

Con l’ottenimento dei token l’utente poteva poi sperare di raddoppiare i guadagni facendo mining oppure aspettando le provvigioni future promesse dai vertici.

Ecco quindi che i token altro non erano che il vero pilastro su cui si fondava il raggiro di Onecoin, per il fatto che non rappresentavano un investimento certo e fruttifero, bensì una quota d’ingresso all’interno della potenziale rete di guadagni, con il vertice della piramide che accumulava denaro senza redistribuirlo ai livelli più bassi; di qui lo stop delle autorità italiane e la dichiarazione di illegalità di questa piattaforma bulgara.